La massiccia crescita urbana spinta dai fenomeni connessi allo sviluppo industriale, se da un lato ha rappresentato un decisivo avanzamento sotto il profilo sociale, dall’altro ha provocato una progressiva distruzione delle culture tradizionali e l’annullamento di ogni forma di interscambio con l’ambiente naturale.
La civiltà e la tecnologia moderne hanno, infatti, provocato, mediante l’uso di tecniche costruttive standardizzate, l’eliminazione di tutti quegli aspetti tipici delle culture regionali e dei luoghi.Fra architettura e paesaggio naturale, fra architettura e luogo, fra architettura e città preesistente, è sempre esistito fino alle soglie dell’era industriale un rapporto di integrazione, un reciproco rapporto di dare e ricevere.
L’ambiente di recente formazione – in particolar modo le addizioni urbane degli ultimi cinquant’anni, in cui noi tutti siamo immersi per ragioni di residenza, di lavoro o di solo attraversamento – invece non pone più in risalto, se non in casi eccezionali, valori gradevoli all’uomo, né in sintonia con le città storiche, ormai accerchiate da uno sviluppo caotico, né integrati con l’ambiente naturale, progressivamente distrutto dall’avanzare delle costruzioni.
Fra i miti condivisi da più di una generazione di progettisti, ed oggi progressivamente “frantumatisi”, vi è quello dell’innovazione costruttiva a base di nuovi materiali, nuovi procedimenti e tecniche.Del fervore e scintillio legati all’immagine dell’innovazione morfologica e costruttiva che, nell’ultimo secolo,
si era impossessata con una scalata costante di gran parte della cultura architettonica e della prassi costruttiva, poco è rimasto in termini di credibilità.
Tutto sembra essere partito da una dogma che per decenni ha imperato indiscusso: il mito del leggero.
L’architettura, da sempre pensata come oggetto massiccio, ben radicato al suolo con le sue pesanti e protettive pareti in pietra o mattoni, nel giro di pochi decenni è diventata portatrice di valori legati al mondo dell’industria, dei materiali artificiali, delle tecnologie leggere di costruzione, quasi a voler tagliare i ponti con la tradizione edilizia e abbracciare quella più nuova dell’industria meccanica.
Per mille strade i nuovi materiali artificiali leggeri entrano nella costruzione dell’architettura sostituendo progressivamente i vecchi materiali naturali e portando con sé la loro massa trascurabile, i loro esili spessori, l’impegnativa manutenzione, la scarsa attitudine alla durevolezza. Ciò che parte come una ricerca tecnologica
spinta da fattori di sperimentazione si trasforma subito in una prassi indirizzata prevalentemente alla riduzione dei costi di produzione e di costruzione; poco importa se a scapito della qualità architettonica e del comfort abitativo.
Il sogno di una mitica, nuova architettura (inizialmente ascetica e rigorosa, poi aggressiva e tecnologizzata) si è sempre scontrato con un veloce deterioramento degli edifici moderni immersi nell’ambiente fisico reale. L’obsolescenza precoce di tanta parte dell’edilizia recente è diventata nell’esperienza collettiva un male ampiamente noto, visto che per “diagnosticarlo” basta guardare una qualsiasi espansione urbana di recente formazione.
Introdurre – o meglio recuperare – una mentalità progettuale alternativa rappresenta lo sforzo autocritico di questi ultimi anni. Si manifesta sempre più un rinnovato interesse nei confronti della qualità architettonica e tecnologica; più inequivocabile della prima, la seconda è indirizzata verso la riadozione di materiali, prodotti e procedimenti costruttivi capaci di offrire, oltre che soglie iniziali di buone prestazioni, anche e soprattutto garanzie di sufficiente mantenimento nel tempo di tali caratteristiche. Il concetto di durata e permanenza, gettato dalla finestra, rientra dunque per la porta principale dell’architettura odierna.
Dopo che per decenni non si è posta nessuna attenzione nella scelta dei materiali e delle tecniche costruttive in relazione alla durata nel tempo e ai costi legati alla gestione-manutenzione degli edifici, oggi è più che mai evidente una progressiva e crescente presa di coscienza per ciò che attiene l’azione di tutto l’insieme
delle aggressioni esercitate sui materiali da pioggia, vento, umidità, fumo, sostanze chimiche contenute nell’aria e nell’acqua piovana, microorganismi, luce, irraggiamento solare.
L’adozione entusiastica dei nuovi prodotti, avvenuta a volte in base al puro e semplice carattere di novità degli stessi, altre volte per l’economicità (in genere “apparente” poiché legata unicamente alla fase di costruzione), non ha fatto tenere in giusta considerazione le loro caratteristiche di affidabilità nel tempo che appaiono strettamente dipendenti dalle proprietà dei materiali stessi.
Dal punto di vista tecnico è fuor di dubbio che si debba giustificare un uso rinnovato del mattone pieno nelle murature portanti alla luce di una sua integrazione con le nuove malte tecniche che permettono di ottenere prestazioni altamente performanti in ordine alla connessione ed ai concatenamenti.
Se da un lato, quindi, l’elemento mattone dovrà essere particolarmente curato per quanto concerne una sua più marcata porosità soprattutto nelle zone di contatto con le malte; queste ultime in classe R3 ed R4 saranno additivate con miscele di lattice onde favorire una più tenace adesione.
D’altro canto la possibilità oggi di realizzare tali nuove murature è determinata sia dalle migliorate capacità produttive degli impianti industriali di laterizio che consentono di attenuare notevolmente le variazioni dimensionali in modo da ridurre al minimo lo spessore dei corsi di legante, che dalla possibilità di ottenere a costi accessibili appunto malte idonee per l’utilizzo nell’allettamento di laterizio pieno.